L’oro di Bankitalia tra regole ferree e nuove opportunità

L’architettura giuridica dell’Unione Europea non lascia spazio a interpretazioni arbitrarie. In base ai trattati fondativi, la gestione delle riserve valutarie ufficiali, compreso l’oro, rientra nelle prerogative esclusive del Sistema Europeo delle Banche Centrali. Ogni intervento su tali attivi necessita dell’autorizzazione della Banca Centrale Europea, mentre l’autonomia degli istituti nazionali, come Bankitalia, è protetta da disposizioni che schermano le autorità monetarie da ingerenze governative dirette.

E un principio cardine resta indiscutibile: le riserve in metallo prezioso non possono fungere da cassa per coprire le uscite statali. Il divieto di finanziamento monetario agli Stati è un fondamento irrinunciabile dei patti europei. In sintesi, l’oro rappresenta un bene della collettività, ma non è uno strumento a disposizione dell’esecutivo per manovre di bilancio. La sua amministrazione è disciplinata da un rigido quadro comunitario, pensato per preservare la solidità della moneta unica.

Tuttavia, la scadenza lo scorso settembre del Central Bank Gold Agreement, delinea uno scenario inedito: le banche centrali dell’Eurozona possono procedere a vendite senza soglie predeterminate né meccanismi di coordinamento. Ciò non implica che l’operazione sia agevole o consigliabile.

Impiegare l’oro per far fronte a spese correnti o per abbattere in misura rilevante l’indebitamento pubblico non è un’opzione percorribile: i trattati lo vietano e, inoltre, i volumi cedibili senza scatenare turbolenze di mercato sarebbero marginali. La questione centrale è differente: una quota di queste risorse potrebbe essere riconvertita, sul modello tedesco, per attenuare l’eccessiva concentrazione in un singolo asset e indirizzare le eventuali somme ricavate verso investimenti di lungo periodo e ad alto valore strategico.

Un simile approccio esigerebbe tempistiche dilatate, una stretta intesa con BCE e Banca d’Italia e, soprattutto, una visione chiara: l’obiettivo non sarebbe il reperimento di liquidità immediata, bensì il potenziamento della capacità di resistenza del sistema-Paese. L’Italia dispone di un ingente patrimonio aureo, fonte di credibilità e di ancoraggio finanziario. Liquidarlo per far fronte a necessità contingenti costituirebbe un grave abbaglio. Valutare, al contrario, una riconversione graduale e ponderata potrebbe rappresentare una mossa razionale, specialmente in una fase di quotazioni record del metallo giallo.

L’oro custodito da Bankitalia non è un tesoro sepolto da dissotterrare in caso di emergenza, né un relitto sacrale da conservare immutato. Si tratta di un bene strategico, che assicura solidità finanziaria, influenza politica e margini di sicurezza in scenari di instabilità. Al contempo, incarna un paradosso tutto italiano: una nazione dotata di cospicue ricchezze finanziarie, che tuttavia fatica a destinare risorse sufficienti al proprio rilancio.

Il vero confronto, dunque, non verte sulla mera vendita o conservazione dell’oro, bensì su come ottimizzare l’impiego del risparmio nazionale, rinvigorire la domanda interna senza minare gli equilibri di stabilità e cogliere le opportunità del quadro normativo europeo in evoluzione per alimentare una politica industriale e tecnologica all’altezza delle sfide contemporanee.